Criticare, in senso lato, è difficile: da parte di chi critica (con finalità costruttive, le critiche fini a se stesse sono escluse a priori da questo contesto, perché possono essere archiviate come sciocchezze) sono necessari una dichiarazione di intenti e la scelta del tempo e dei modi adeguati, da parte del criticato la capacità di vedere al di là del perimetro personale e la volontà di cambiare.
In genere merita criticare chi può capire la critica e migliorare. In alcune situazioni è già evidente da principio che qualsiasi tentativo di critica sarà inutile: in questo caso può essere utile sostituire il critico (prima di rinunciare, dopo un tentativo più che altro simbolico).
Nella vita affrontiamo critiche più o meno tutti, per motivi ed in tempi diversi. Le critiche in genere dispiacciono, qualche volta feriscono, ma in genere aumentano proporzionalmente alle responsabilità e alla visibilità dei soggetti. Di conseguenza i criticandi devono essere attrezzati a sopportarle.
Ho provato a fare alcune domande sull’argomento a Stefano Crise, bravissimo pianista e studioso di musica classica e comunicazione, nonché critico musicale.
D: Raccontami le tue esperienze con la critica come pianista
Ricordo che prima di un mio concerto chiesi ad un Responsabile se in sala ci fosse anche la critica. La risposta fu istruttiva: “No, per carità, si figuri, qui è tutta gente perbene cui piace la musica”. Benché da concertista non temessi di leggere le recensioni sui miei non numerosi concerti, la curiosità era sempre tanta, perché spesso leggevo commenti quasi sempre accondiscendenti ma del tutto inutili per il mio modo di interpretare la musica. Dopo un concerto in duo trovai questo titolo: “Grande comunanza di intenti”, termini che interpretai come positivi anche se un po’ oscuri. Cosa erano questi ‘intenti’? Il termine lasciava trapelare o no i nostri lunghi ragionamenti ed approfondimenti estetici? Qualche volta ho trovato anche l’aggettivo ‘straordinario‘: ma cosa significava essere ‘fuori dall’ordinario’? Quell’aggettivo era una scorciatoia semplificatrice oppure rimandava ad un concetto condiviso di ‘ordinario’?
Come vedi la critica musicale da pianista mi risultava distante anche per il linguaggio, che all’epoca ritenevo un po’ troppo autoreferenziale e fine a se stesso.
D: E come ascoltatore?
Anche da fruitore di concerti la critica musicale mi ha prodotto dei turbamenti. Da giovane studente di pianoforte amavo seguire i concerti, in particolare dei pianisti, meglio se di grandi pianisti. Tra i miei preferiti c’era Sviatoslav Richter, che ho seguito durante le tournée a Trieste e in altre città. Ricordo un suo programma beethoveniano, un accostamento imperdibile dove si incontravano vette assolute. In quel caso (rimasto unico), però, ebbi una certa delusione perché, a differenza che in altri suoi concerti, Richter non era riuscito a comunicare al solito eccelso livello, tanto è vero che anche il pubblico non era rimasto del tutto coinvolto. Si seppe dopo che il Maestro non stava bene fisicamente. La critica uscita dopo due giorni, invece, esaltò l’interpretazione: quello che per me era stato noioso per il critico era ‘nobilmente contenuto‘, certi passaggi poco puliti per il critico erano ‘impeccabili‘, quelli senza dinamiche per il critico erano di un ‘suono cristallino’. Ma dove stava la verità? Non avevo capito niente? Contava di più il nome dell’interprete o l’interpretazione?
D: Che opinione hai del rapporto tra critica e ruoli istituzionali?
Ho visto la critica in una prospettiva ancora diversa nella mia veste di componente del Consiglio di indirizzo del Teatro Verdi di Trieste. Per un nesso, non molto stretto in verità, tra critiche e possibili finanziamenti da parte dei funzionari del Ministero, c’era spesso una certa apprensione nel leggere i responsi della critica. Credo basti un unico esempio: in occasione di una prima opera della gestione di un nuovo Sovrintendente, la messa in scena non era stata del tutto soddisfacente da molti punti di vista e due dei massimi critici musicali italiani scrissero due dettagliatissime recensioni del tutto contraddittorie: una esaltante e l’altra addirittura crudele nella stroncatura, entrambe insomma prive di equilibrio e saggia obiettività. Un altro critico, poi, se la prese solo col nuovo Sovrintendente senza entrare nel merito dello spettacolo…
D: Qual è il tuo atteggiamento quando devi scrivere una critica?
Le mie recensioni musicali sono sempre il risultato di una serie di ripensamenti, improntati a cautela e rispetto e derivanti da un dibattito teorico ispirato ad esempio a Leonardo Pinzauti (che ben lo sintetizzò nel 1995 nello scritto Ma è proprio vero che è morta la critica musicale sui giornali?). Per poter oggi scrivere di critica credo sia importante partire dall’uso di un linguaggio specifico e comprensibile, ma anche concreto e preciso.
D: Che termini usare, dunque?
Quando parlo di linguaggio penso non solo ai contenuti ma ancora alla forma. Un Caporedattore del Piccolo di Trieste mi consigliò di usare negli articoli meno avverbi possibile e di fare particolare attenzione nell’uso degli aggettivi. Il risultato fu che mi chiedevo (e mi chiedo ancora): ma non si entra in un campo minato? Come si fa a descrivere senza aggettivi, magari proprio quelli qualificativi? Mi ha sempre impressionato, inoltre, vedere usati nella critica musicale termini che rimandano ai piaceri del palato. Sono due piaceri, ma forse uno è un po’ meno terreno? È il linguaggio il problema dell’interpretazione?
Il linguaggio rimane uno dei nodi più complessi da sciogliere quando si scrive una critica musicale e va adeguato e raffinato a seconda della sua collocazione.
D: La critica in versione cartacea sopravviverà?
Che piaccia o meno, da molto tempo i quotidiani hanno rinunciato a dare spazio alla critica musicale. Restano solo le riviste specializzate, rivolte ad un pubblico ristretto che si ritiene abbia conoscenze musicali di buon livello. Per questo da un lato è più facile descrivere l’interpretazione, perché si possono usare i termini corretti senza doverli spiegare, dall’altro l’articolo di solito viene letto con un certo ritardo rispetto all’evento, per la cadenza in genere mensile di queste riviste. Che senso ha leggere qualcosa su un evento ormai passato sul quale il web ha già scritto ed emesso diversi giudizi?
D: E la critica sul web?
Qui il discorso diventa più complesso. Se rimaniamo nella sfera personale, ognuno è libero di esprimere i propri gusti come gli pare. Il web non prevede un ambito privato e diviene invece un megafono per giudizi inappellabili, spesso privi dei necessari riferimenti al contesto culturale e storico che affermazioni estetiche o di critica dovrebbero avere. Il web velocizza, è vero, ma la velocità non è di per sé una qualità. Il web in compenso banalizza le competenze con una falsa libertà di espressione: non ci si può improvvisare ‘tecnici’ della critica musicale solo perché si seguono i concerti, ma sono necessari un curriculum di studi e un considerevole bagaglio di esperienze sonore che permettano di leggere le partiture e le interpretazioni con maturità e equilibrio. Infine non è necessario formulare giudizi ma offrire ai lettori consapevoli e magari stimolanti chiavi di lettura.
D: Il critico dunque deve giudicare o no?
Forse sta proprio in questa affermazione il vero nodo da sciogliere: il critico deve dare un giudizio? E se ha l’autorità per farlo, ha senso decretare ciò che è bene o male nel campo dell’interpretazione? Nel mondo della musica, diceva il mio Professore di Armonia, 1 più 1 in genere dà 2, ma può dare 3 e perfino 11. Il risultato, per chi ascolta, dipende dal rispetto per chi esegue, dall’elasticità nell’accettare la novità, dal capirne i presupposti estetici e culturali e anche dall’evitare di porsi nella condizione di detenere la verità a priori di fronte ad un risultato che non è assoluto. Per valutare un’esecuzione sono necessari la descrizione del momento interpretativo, la giustificazione del proprio punto di analisi ed un ponte comunicativo con i lettori. Certo, tra i sommi musicisti vi è la possibilità del paragone, della differenziazione, c’è la storia dell’interpretazione che ci aiuta a creare delle inevitabili ma non settarie o irreversibili graduatorie. In fondo l’interpretazione è unica, irripetibile, fugace ed è magica proprio per questo, non la si può considerare né in bene né in male un monumento fruibile sempre uguale ma un momento dell’arte più immateriale e astratta che ci sia. Se poi si recensisce un concerto eseguito da un interprete scadente, beh sta al critico mostrare la sua bravura nello scriverne. Stroncare semplicemente, è fin troppo facile. E talvolta inutile.
N.d.R.
Stefano Crise è un bravissimo musicista e studioso di musica classica.
Cresciuto nel mondo stimolante e culturalmente vivacissimo che ruotava attorno al famoso ed amatissimo padre Stelio, bibliotecario, studioso e critico letterario, per Stefano è stato naturale amare la musica e la letteratura ed interessarsi di critica. Dopo la laurea in Storia e la specializzazione Comunicazione, Stefano ha terminato il Conservatorio ed intrapreso la carriera di pianista, durata una decina di anni. E’ stato poi docente di Storia della Musica all’Università di Trieste e di Metodologia dell’educazione musicale nella relativa Scuola di Specializzazione, ruoli che gli hanno consentito di approfondire le conoscenze nel campo della comunicazione didattica e scrivere alcune monografie (ad esempio sull’interpretazione di Mozart, sul valzer, sulla vita letteraria e musicale a Trieste, sulla musica e il proletariato). Contemporaneamente Stefano si è dedicato alla critica musicale, iniziando al Piccolo nel 1988 e proseguendo con la rivista Amadeus ed infine con il mensile Archi Magazine, con cui collabora attualmente.
Oltre a tutto questo, Stefano è un mio caro amico da molti anni ed una tra le persone più spiritose che io conosca.
Prima di tutto un grande abbraccio a Stefano che, confermo, ricordo come una persona piacevolissima e dotata di una vis autoironica che appartiene solo alle persone intelligenti e profonde! Relativamente alla questione qui proposta devo dire che non sono un’esperta musicale ma il problema della critica è comune a diverse discipline artistiche… Mastico un po’ di letteratura e, relativamente alla figura del critico letterario, c’è chi afferma che il critico, reinterpretando l’opera si fa a sua volta artista. Altri invece sostengono che il critico deve rimanere nell’ombra, dando solo un giudizio tecnico e che i critici migliori sono proprio gli artisti…Tanti sono stati inoltre gli abbagli presi da critici famosi che hanno stroncato, ad esempio, i crepuscolari o gli ermetici; ;Svevo è stato “scoperto” molto tardi, non dalla critica coeva ma da Montale e Joyce…Quindi la materia è quanto mai spinosa e la casistica è molto varia, tanti critici sono stati figure positive e sono punti di riferimento importanti per gli apporti nella comprensione delle opere. Oggi poi con internet, dove c’è il mare magnum della libera interpretazione e degli opinionisti da quattro soldi, è ancora più complicato districarsi nel marasma di giudizi senza appello. Perciò credo che il pubblico scelto sia quello di riferimento, quello colto ma anche quello più sensibile che riesce a distinguere e ad apprezzare. Sarebbe compito dei sistemi di comunicazione farlo per indirizzare soprattutto i giovani e per valorizzare le eccellenze, ma, ahimè, le logiche di mercato hanno fagocitato tutto. Quindi farsi spazio nel sistema attuale è un problema aperto, casuale, non basato spesso sul merito.
Penso che l’intervista a Stefano qui proposta abbia comunque stimolato la curiosità e il desiderio di sentirlo suonare e che l’iniziativa di Silvia sia stata una giusta via per diffondere problematiche comuni e far conoscere personaggi di spessore!
Un abbraccio a Silvia e a Stefano
Che occasione per riprendere tanti discorsi lasciati in sospeso, vero Franca?
Grazie dell’intervento, quasi un’altra intervista.