(confidenze semplici di un medico palliativista)
“Sono un uomo,
e nulla di ciò che è umano
mi è estraneo”
(Publio Terenzio Afro)
Il medico che esercita la propria professione nella dimensione delle cure palliative si sente spesso appellato quale angelo, angelo provvidenziale, angelo col camice. Capita sovente che egli si senta dire di essere comparso quasi all’improvviso nella vita di tanti come fosse un angelo mandato dal cielo con chissà quale missione straordinaria da compiere.
Devo confessare che, da medico palliativista, ho sempre accolto in me simili attestazioni iperboliche, comunque sempre legittime e serie, attraverso un movimento interiore fatto di sensazioni miste: di gratificazione e di piacere, ma anche di imbarazzo e sorpresa. Perchè, se anche nella migliore delle ipotesi avessi dovuto ritenere di avere condotto un percorso ineccepibile, resta tuttavia ogni volta netta la consapevolezza che tutto era compreso, comunque e sempre, nell’ambito delle cose che andavano fatte in qualità di medico palliativista. E in ogni caso, ogni volta risuona sempre forte la sensazione di meraviglia per essere a tal punto sopravvalutato, laddove so bene di aver fatto solo quel poco o tanto che c’era da fare, spesso senza neanche avere la certezza di essere stato all’altezza del compito a cui ero stato chiamato.
Un medico scopre la sua vocazione di palliativista nel tempo, come una forma che gradualmente emerge dall’interno, via via che cade tutta la scorza superficiale, come una scultura che emerge da un blocco di marmo.
Il medico palliativista è quella persona che solitamente si ritrova per ultima ad uscire dalla camera di chi sta morendo o che già non è più; e che a fatica e con grande dispiacere esce dalla stanza mentre familiari e amici piangono il lutto.
Il medico palliativista è colui che non accende le luci spente della stanza durante la notte, per non offendere gli occhi e la mente del paziente; è colui che entra con discrezione nella camera del paziente e che, se possibile, non lo sveglia se sta dormendo; cerca di donare sempre il suo sorriso e una parola di prossimità e di speranza ma anche di stare in silenzio di fronte al quesito improponibile, in una dimensione di condivisione umile delle comuni fragilità.
Il medico palliativista non teme il rischio che nasce dall’entrare in profondità di relazione umana col paziente. Egli conosce il valore del dono di una carezza e, laddove possibile e necessario, riesce anche a trovare il coraggio di esporsi al rischio di un bacio o di un abbraccio, perché sa che la memoria di quel tocco, di quel contatto fisico, alimenta la speranza e l’efficacia delle cure, anche se tutto ciò, creando un’aspettativa e un’attesa, non lo svincolerà più da quella storia, da quella relazione. Ma di questo lui è contento.
Inoltre, conosce il valore e il senso delle parole e si sforza sempre di cercare la parola giusta e vera. Egli è sempre pieno di dubbi più che di certezze, ma ripone la sua fiducia nella potenza umanizzante e liberatrice della realtà della relazione di cura sapendo che la sua pazienza non può e non deve avere mai fine.
Il medico palliativista prova generalmente un certo disagio nell’andare in ferie, perché sa bene che, al suo ritorno, quasi certamente non incontrerà più una parte di tutti quei pazienti, di tutti quegli uomini e di tutte quelle donne con cui ha instaurato una relazione umana di prossimità e speranza. E sa anche che deve resistere, cercando di trattenere la lacrima o dissimulando con tutte le proprie forze il proprio umano dolore, la propria emotività, la propria personalissima fragilità.
Lui vive sempre “fissando il sole”1, in equilibrio perenne fra senso e non senso, sapendo che non può rischiare di cadere né di distogliere lo sguardo e che, pertanto, con umiltà deve anche sapersi appoggiare agli altri con fiducia. Si sente spesso inadeguato e nel dubbio: non ha mai la certezza piena di aver fatto bene ogni cosa, la cosa giusta, per il bene di tutti.
Egli è un cercatore, che sa di non potere arrivare alla verità completa ma che si impegna quotidianamente per trovare ogni volta la soluzione migliore, attingendo a tutte le proprie capacità creative pur di essere sempre nuovo e originale; che si sforza sempre di capire quando è il momento di parlare e quando invece è il tempo di tacere, sapendo che la sua forza sta nella qualità del suo parlare e del suo tacere così come nella capacità di dosare sapientemente parola e silenzio. Nel tempo egli impara ad imparare dal paziente, affinando progressivamente la difficile arte dell’ascolto. Non fermandosi al qui ed ora, egli intuisce anche la potenza umanizzante e feconda della realtà della “cura del dopo”; e dunque, nel suo varcare risoluto oltre la soglia stretta della porta dell’ultima stanza, manifesta la piena consapevolezza del senso profondo del suo ruolo, che non si esaurisce al momento della fine, ma che, in un continuum di valore, prosegue in un tempo ulteriore in cui il dopo e il prima cercano di abbracciarsi per realizzare quella unità di un percorso che, impregnato al contempo di vita e di morte, di angoscia e di pace, solo può aprire il varco alla speranza, oltre ogni dolore, attraverso la realtà della comunione e della prossimità con i sopravvissuti.
Ma tutte queste cose il palliativista le vive con naturalezza, interpretando il suo ruolo quale puro e sottinteso atto di responsabilità nei confronti delle esigenze di una vocazione riconosciuta che si incarna gradualmente in uno stile di vita e in un modo di essere che si pone al servizio di tutto ciò che è umano favorendo percorsi di liberazione, di speranza e di riconciliazione.
E dunque, non può non essere grande il suo stupore e il senso di meraviglia ogni volta che si sente rivolgere parole di particolare generosità e ammirazione.
1 Vedi Irvin D. Yalom, “Fissando il sole”, BEAT Editore, 2020 .
Perché lui ha una sola, unica certezza: quella di non essere un angelo.
Giovanni Farro
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