“Non suonare quello che c’è,
suona quello che non c’è”
(Miles Davis)
La comunicazione in medicina rappresenta un aspetto fondamentale del percorso clinico. Il codice di deontologia medica, all’articolo 20, sottolineando l’importanza della relazione con il paziente fondata sull’alleanza di cura, riconosce il valore della comunicazione quale strumento necessario e imprescindibile per fornire al paziente un’informazione che sia sempre comprensibile e completa; pertanto considera “il tempo della comunicazione già quale tempo di cura”.
L’attenzione che si dedica ai processi della comunicazione è segno della qualità del percorso clinico seguito. La cura della forma e delle modalità espressive così come la qualità della sostanza di ciò che si comunica incide in maniera particolarmente significativa sull’andamento del percorso diagnostico-terapeutico instaurato.
In cure palliative, la qualità della comunicazione instaurata all’interno della relazione di cura con il paziente e i suoi familiari assume una rilevanza ancor più significativa al fine di garantire quell’accompagnamento umano, caldo e rassicurante che è sempre auspicabile e vincolante per il buon esito di tutto il processo di cura.
La scienza della comunicazione ci informa in maniera dettagliata sulle varie metodiche da utilizzare al fine di impostare una corretta modalità comunicativa. Sappiamo che un valido processo comunicativo si snoda attraverso l’integrazione efficace dei suoi vari aspetti: verbale e non verbale, alternanza di parola e silenzio, di proposta e ascolto, di distanza rispettosa e di contatto, anche tattile, che rassicura attraverso la prossimità compassionevole.
Rimandiamo pertanto alla vasta bibliografia esistente sul tema l’approfondimento circa la forma e le modalità della comunicazione.
In questa sede rifletteremo in sintesi sulla sostanza e sugli obiettivi che il processo comunicativo dovrebbe sempre assumere e fare propri nella dimensione delle cure palliative.
In medicina, ma ancor più in medicina palliativa, lo scopo principale della comunicazione col paziente è quello di riuscire a risollevare idealmente il paziente dal suo letto di malattia per riportarlo al livello di persona e di persona malata. Ciò significa soprattutto incanalare ogni sforzo per consentire il riconoscimento e l’accoglienza anzitutto del paziente nella sua dignità di persona, di essere umano portatore di una storia e di un’identità ben precise da valorizzare ed esaltare in ogni momento della relazione di cura instaurata.
La dignità dell’uomo nasce con la persona e si manifesta nella realtà visibile della persona nel momento stesso in cui questa si presenta al mondo e al cospetto dell’umanità. Ma la dignità si presenta anche attraverso la realtà invisibile di ogni persona, quella realtà che va amata e custodita comunque: i sentimenti, le pulsioni, le emozioni, i desideri, le fragilità, i limiti e i bisogni di una persona, anche se inespressi e taciuti, vanno interpretati, accolti, protetti e rispettati poiché segni tangibili della presenza di essa e della sua dignità. Solo una corretta e articolata modalità comunicativa può esaltare e mettere in luce l’uomo in tutta la sua dignità. Così, la dignità si va precisando nella nostra consapevolezza sempre meglio in ordine alla sua identità e definizione: la sua sostanza è fatta di vita, di relazione, di responsabilità. La dignità, definita perlopiù come nobiltà ontologica e morale connaturata nell’uomo per il semplice fatto di esistere, genera la necessità del riconoscimento e del rispetto automatico di se stessa da parte di ogni uomo.
Ogni strategia comunicativa, a partire dalla cura dell’aspetto esteriore, della sostanza della parola condivisa e della propria gestualità, per proseguire attraverso il sapiente dosaggio di parola e silenzio in una dimensione di ascolto reale e fecondo, incondizionato e senza tempo, che contempli anche la necessità ed il coraggio di una carezza, di un abbraccio o di un bacio, non ha altro scopo che quello di stabilire un rapporto interumano alla pari che, esaltando in primo luogo la dignità della persona, sia in grado di innescare processi di cura e di speranza e indicare percorsi di liberazione, di riconciliazione e di pace.
Nel suo celebre diario “Il mestiere di vivere”, Cesare Pavese ci ricorda che “Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola”, intendendo dire che per liberarsi di una realtà opprimente, la via migliore sia quella dell’attraversarla affrontandola a muso duro. Ma come è possibile imboccare la via del confronto diretto con una realtà di dolore e di angoscia? Con quale forza e con quali strumenti è possibile pensare di attraversare un’esperienza di sofferenza e di morte?
Nella solitudine della presunzione di farcela sempre e comunque esclusivamente con le proprie forze, il tentativo è destinato a fallire in partenza. La soluzione è sempre quella del noi e non dell’io, della vicinanza e della prossimità umana, dell’accompagnamento e della condivisione, della comunione tra anime e respiri viventi che generano unità e pace. La forza può venire non tanto dal tentare di “essere” in ogni caso e in qualunque modo, ma dall’ ”essere con”. Anche e soprattutto all’interno di situazioni negative di male e di dolore. Quando la fragilità della nostra vita si manifesta in tutta la sua potenza, allora è necessario, indispensabile, trovare un sostegno, un appoggio che ci permetta di non “romperci”, di non soccombere al male nella solitudine. Stiamo ragionando di compagnia fedele, di relazione umana orientata al bene e alla vita, di relazione di cura, di presenza certa. E’ questa la sostanza profonda e il senso ultimo di un corretto percorso di comunicazione in medicina palliativa.
Ma, a questo punto, è necessario anche ragionare sul fatto che dietro ogni relazione autentica di cura esiste sempre la spinta di una passione incoercibile, di un desiderio incontenibile che viene dal profondo del cuore di una vita umanizzata: è il desiderio di bene e di vita per ogni uomo e ogni donna, così come per ogni essere vivente. In particolare, si può parlare di passione per l’uomo e per tutto ciò che attiene alla umanità dell’uomo, intesa nel senso di tutto ciò che di piccolo, di fragile e di limitato connota necessariamente la vita di ogni essere umano al punto da volerlo fare oggetto della propria attenzione per considerare l’umanità dell’altro uguale alla propria personale umanità e permettere di contemplare l’altro nella grandezza della sua umanità. La contemplazione della umanità fragile dell’uomo, il fissare lo sguardo su di essa, così come la si può riscontrare in ogni uomo e in ogni donna, rende ogni altro essere umano uguale a se stessi e dunque necessariamente il destinatario di ogni attenzione, di ogni cura, di ogni sforzo comunicativo relazionale, di ogni gesto d’amore che possa generare speranza e vita.
Quando si osserva la persona malata, con tutte le sue difficoltà, ridotta all’essenziale, che trasuda umanità da tutti gli angoli del suo essere, come si può non pensare a quanto sia uguale a se stessi, a quanto la sua fragilità sia la propria, i suoi limiti i propri stessi limiti, considerando e ricordando sempre cosa significhi essere deboli e senza forze, bisognosi e in cerca della forza e del sostegno della mano calda e del cuore compassionevole di un altro uomo? Se io faccio lo sforzo di “vedere”, di cogliere l’uomo nella sua più intima umanità, allora non posso fare altro che considerarlo un fratello uguale a me.
Secondo il cardinale Martini, “il confronto, in un percorso di cure palliative, con ogni tipologia di umanità e di uomo, esige la messa in campo di tutti quei preparativi che necessitano per impegnarsi in una sfida delicata e fondamentale, in cui bisogna mettersi in gioco con tutta la carica umana possibile e con tutta la capacità acquisita per sapere adeguare e ri-orientare ogni volta l’ascolto del cuore verso le esigenze e le richieste, sempre uniche e originali, di chi ci sta chiedendo attenzione, compassione e cura”.
Una comunicazione corretta è una comunicazione umana che genera sempre una realtà di incontro che è realtà di verità. L’incontro è faticoso, ma in esso è nascosta la verità. Il percorso, creativo e sempre originale, alla scoperta dell’umanità dell’uomo apre itinerari di comunione, di vicinanza e di solidarietà, generando ponti che permettono incontri e relazioni realmente autentiche perché feconde e gravide di vita.
In definitiva, l’efficacia e il valore di ogni percorso di comunicazione in cure palliative si potrà misurare in relazione diretta a quanta luce e quanta compassione sarà stata trasmessa e portata nell’esistenza della persona malata.
Ma perché tutto questo accada è necessaria tutta quella sapienza umana che sia in grado di custodire nel proprio cuore quella necessaria benevolenza che, incarnata nella prassi di ogni percorso di cura e di ogni processo di comunicazione, può generare quanto affermava Laozi nel VI secolo AC:
“Una parola
pronunciata con benevolenza
genera fiducia
Un pensiero
espresso con benevolenza
genera profondità.
Un servizio
svolto con benevolenza
genera amore”.
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