Silvia Magnaldi - Specialista in Radiologia - Blog di Medicina, Attualità e Sport

Il termine inglese “hospice”, derivato dal corrispettivo latino “hospitium”, definisce e identifica un luogo di accoglienza e di ricovero (intra o extra ospedaliero) per pazienti giunti alla fase ultima della loro vita poiché affetti da una o più malattie non più suscettibili di guarigione attraverso le terapie mediche, chirurgiche o radiologiche. La condizione necessaria e vincolante per accedere ad un percorso di cure palliative, che sia domiciliare o in regime di ricovero in un hospice, è, infatti, proprio quella della terminalità. Questa si concretizza quando vengono soddisfatti i tre criteri che definiscono un paziente “allo stato terminale”: il criterio terapeutico (non esiste più alcuna terapia che possa portare alla guarigione o alla remissione della patologia), il criterio cronologico (secondo il quale si ipotizza una prospettiva verosimile di sopravvivenza di circa tre-sei mesi), il criterio clinico (che considera il basso grado delle performance, capacità residue di autonomia, del paziente secondo scale e indici condivisi).

In sostanza, l’hospice è una struttura sanitaria residenziale a carattere domestico in cui si realizza l’accompagnamento del paziente in fase terminale attraverso un percorso di cura che considera tutte le dimensioni esistenziali della persona malata: fisica, psichica, sociale, spirituale. In equilibrio permanente fra accanimento terapeutico ed eutanasia, l’obiettivo principale delle cure palliative erogate in hospice è quello di custodire ed esaltare la dignità della persona sofferente attraverso il trattamento efficace volto allo spegnimento dei sintomi che offendono e feriscono l’umanità stessa del malato. In questo percorso, al cui centro è il malato, è prevista anche la presenza e l’accompagnamento di quanti, familiari e amici, fanno parte del corteo affettivo e di prossimità del paziente stesso. Pertanto, oltre alle camere di degenza – singole, con servizi, dotate di tutti i comforts e della possibilità di un letto aggiunto per il caregiver – ogni hospice comprende locali comuni, a disposizione di tutti – operatori, pazienti e familiari – al fine di realizzare le migliori condizioni perché la permanenza venga considerata il più possibile quale prolungamento ideale della vita presso il proprio domicilio. L’assenza di orari per le visite e le porte di accesso sempre aperte contribuiscono allo scopo.

Ma che significa operare e vivere in un hospice?

L’hospice è una realtà complessa che è soprattutto uno spazio, un luogo, ma anche una dimensione particolare, piena e completa, in cui la medicina, da scienza inesatta quale è, si fa scienza ancor meno esatta, ancora più sfumata nelle sue possibilità e nei suoi limiti. È lo spazio in cui si giunge dopo aver chiuso un percorso con lo scopo di iniziarne uno nuovo, del tutto inedito e imprevedibile. E’ il luogo delle contraddizioni, in cui si fa esperienza di tutto come del suo contrario, di pace e di lotta, di sorriso e di pianto, di gioia e di dolore, di vita e di morte.

Il lavoro in hospice è prevalentemente un lavoro di équipe in cui ognuno si mette quotidianamente in gioco esaltando al massimo le proprie capacità di ascolto, di disponibilità empatica e di creatività, con competenza clinica e relazionale. Il percorso di cure palliative in hospice si articola secondo diverse fasi, tutte molto delicate e importanti. Alla fase della proposta e del colloquio col paziente e con i familiari segue il momento dell’accettazione in reparto e della degenza vera e propria, fino al momento finale della dimissione e del commiato; l’opera del medico palliativista, così come quella di ogni operatore impegnato nella gestione del caso, deve ispirarsi esclusivamente alla dimensione della cura con l’unico obiettivo di instaurare quella relazione interumana idonea e adeguata alle varie tipologie di pazienti al fine di garantire lungo tutte le fasi del percorso quell’accompagnamento caldo, delicato e rassicurante dell’uomo nell’ultima fase del proprio cammino esistenziale. Questa relazione di cura, che si estende anche ai familiari e che può proseguire anche nella fase post-mortem a favore dei sopravvissuti, deve essere caratterizzata da quella “infinita delicatezza umana e da quella grande sensibilità spirituale1” che sole possono garantire la prossimità, la presenza e la vicinanza amichevole e competente.

Attraverso la condivisione e il confronto reciproco, libero e alla pari, quotidiano e perseverante tra uomini adulti e consapevoli, si genera la fiducia e si alimenta la speranza potendo così fare in modo che si sviluppi sempre più una realtà di vita in cui si impara a condividere il vivere e il morire, come dice la De Hennezel, “ad occhi aperti”. Perchè in hospice l’attività principale, quello che tutti insieme si fa ogni giorno, è la celebrazione della vita, sempre e comunque, destreggiandosi tutti, operatori, pazienti e familiari, in perenne equilibrio tra accanimento ed eutanasia, tra senso e non senso.

Così potrà essere più facilmente raggiunto l’obiettivo, quello di aver ridato valore e umanità a quell’ultima fase della storia, restituendo all’uomo sofferente, malato, disperato, spesso angosciato, tutta la sua dignità attraverso quella prossimità operosa, attenta e sempre in ascolto, che genera speranza. La dimensione domestica, l’atmosfera familiare che si realizza in hospice favorisce il percorso di cura attraverso un processo di graduale adattamento alla nuova situazione che viene sempre più considerata dal paziente e dai propri familiari come la casa in cui condividere la propria comune umanità in tutti i modi possibili.

Per questo, la competenza richiesta è semplicemente e soprattutto quella di saper essere uomini e donne adulti, intrisi di umanità e talmente appassionati dell’uomo da riuscire a condividere la propria fragilità ed i propri limiti attraverso ogni forma possibile di comunicazione e di confronto, non solo con la parola, ma anche attraverso il silenzio ed il semplice, ma sempre impegnativo, contatto fisico: è una storia, un’esperienza che genera percorsi di speranza, di vita e di liberazione. In hospice si combatte giornalmente una lotta contro il non senso della vita per aprire un orizzonte di nuova speranza; qui si celebra quotidianamente la vita in tutte le sue forme: è un luogo liturgico, in cui si celebra la liturgia della vita.


1 Enzo Bianchi e Luciano Manicardi, Accanto al malato, Edizioni Qiqajon, 2000, cfr. pag. 85

Tutte le figure operative in un hospice sono fondamentali: dal medico al volontario, accanto al paziente e ai familiari, tutti entrano a pieno titolo nel percorso di cura, ognuno per la sua parte, ognuno secondo il proprio ruolo e la propria competenza, condividendo  la stessa esigenza di crescere tutti insieme in quelle competenze che sono fondamentali per instaurare e mantenere una corretta e umana relazione di cura: empatia, ascolto, creatività, pazienza, coraggio, presenza, prudenza, delicata prossimità, sapienza nella comunicazione, compassione.

In questo percorso, in cui, oltre alla condivisione delle comuni fragilità, ognuno è impegnato nell’eterno conflitto interiore tra finitezza della propria corporeità e infinitezza della propria spiritualità, questo è il dovere di tutti: annullare e spegnere la sofferenza perché emerga sempre l’uomo e la sua dignità su tutto, soprattutto nell’ultima fase della sua vita, quella in cui ogni cosa può ritrovare il suo senso e ci può essere ancora e sempre spazio per la speranza e la pace del cuore. Per celebrare, fino all’ultimo momento e oltre, sempre e solo la vita.

Hospice

Lotta incessante

angolo di pace,

umana prossimità

tempio di cura,

intima relazione

fragilità condivise,

potenza d’amore

terra di speranza,

inestinguibile memoria

liturgia della vita.

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