Al prossimo congresso Nazionale della SIRM, che si terrà a Roma tra il 6 e 9 ottobre, è prevista una Tavola Rotonda su un argomento nuovo e molto interessante, la Gamification.
Dato che sarò moderatrice della Tavola Rotonda, ho partecipato alle “call” preliminari con i relatori (Davide Bonati, Alan Mattiassi e Maurizio Vergendo) divertendomi come una matta ed imparando moltissimo.
La gamification è ovunque!
Ho pensato di chiedere un contributo ad uno dei relatori, Alan Mattiassi.
Alan è uno psicologo, ricercatore, formatore e divulgatore.
I suoi principali interessi sono lo studio della mente e del comportamento nel gioco e l’utilizzo costruttivo della teoria dei giochi a fini formativi e didattici e in altre attività.
Alan ha collaborato ad importanti progetti europei sul gioco (come ad esempio Free to Choose) e formato e forma centinaia di persone su questo tema.
Attualmente è assegnista di ricerca all’Università di Firenze e Game Science Lead presso FEM e lavora come freelance come psicologo del gioco.
Spero che l’argomento vi incuriosisca e vi aspetto numerosi alla Tavola Rotonda di venerdì 7 ottobre 2022 alle ore 12 in Aula Polluce (I piano), alla Nuvola (Roma).
Negli ultimi anni si parla sempre più di gamification. Vediamo assieme di cosa si tratta.
La gamification è nata come l’utilizzo di elementi di game design, quindi di progettazione di giochi, all’esterno dell’ambito ludico.
Cosa sono questi elementi di game design?
Ad esempio possiamo pensare ai punti, un concetto strettamente legato al mondo del gioco: generalmente, ad un’azione che avvicina ad uno stato di vittoria vengono elargiti punti, mentre ad un’azione che allontana dallo stato di vittoria ne vengono tolti (con tutte le varianti del caso). Mentre possiamo affermare che questo meccanismo è comprensibile intuitivamente alla maggior parte delle persone, pochi sono quelli che si fermano ad analizzarne l’effettivo funzionamento: se la persona giocante non sa se si sta avvicinando alla vittoria o allontanandosi da essa, allora i punti fungono da guida; se una persona non sa se l’azione che sta facendo è utile o meno, allora dare o togliere punti è un modo per insegnare; se ad un’azione corrisponde una perdita più ingente di un’altra, allora il gioco sta insegnando alla persona giocante che sta commettendo degli errori più grandi di altri; e così via.
La gamification, nella sua accezione tradizionale e tecnicamente corretta, applica meccaniche come quelle dei punti ad ambiti esterni al gioco: pensiamo ad esempio alla raccolta punti quando facciamo la spesa. Allo stesso modo che all’interno dei giochi, possiamo individuare quali azioni ci avvicinano dall’ottenere il nostro premio (fare la spesa ogni settimana, raggiungere ogni volta almeno una soglia di spesa, etc potrebbero essere il modo ottimale per ottenere il massimo dei punti), quali azioni premiano di più (usare la tessera o meno, comprare una certa gamma di prodotti, etc) e così via.
Oltre ai punti, si usano classifiche, badge, competizioni, simulazioni, avatar, livelli, e molte altre meccaniche. Ma a che scopo?
Gli esempi che abbiamo analizzato sulla meccanica dei punti potrebbe portare a pensare che lo scopo della gamification sia quello di insegnare come funziona qualcosa. Ciò è vero solamente a metà: infatti, una volta superata la fase di apprendimento, tolto il punteggio a certi giochi, questi perdono il loro appeal. Immaginate infatti di giocare ad un videogioco in cui il punteggio ottenuto è una somma data da valori di accuratezza e velocità, come potrebbe essere un simulatore di snowboard acrobatico: ad ogni salto, si prendono punti pari all’accuratezza con cui viene eseguito, e ad ogni fine corsa si ottiene un punteggio pari alla massima velocità raggiunta. Una volta che impariamo l’associazione tra azioni “buone”, azioni “meno buone” e punteggi, la fase di apprendimento si conclude, e rimane la fase di performance. Facciamo una partita, otteniamo un punteggio. Se pensiamo di poter superare quel punteggio, misura della nostra performance e quindi specchio della nostra abilità, allora ci riproveremo di nuovo: cercheremo di ottenere un punteggio migliore.
Ecco a cosa servono gli elementi di game design che si usano nella gamification: a motivare la persona a “giocare” nuovamente – quindi a comprare nuovamente, ad aderire ad un brand, a scegliere nuovamente un servizio, e via dicendo. Le vie sono molte: ogni meccanica agisce in un modo ben specifico (immaginate ad esempio una classifica in cui nella posizione immediatamente superiore alla vostra c’è un vostro amico: farete a gara per superarlo).
Spiegato il funzionamento base della gamification, veniamo all’evoluzione più recente di questo concetto. Nelle ultime decadi il gioco è sempre più diffuso come passatempo e di recente anche come ambito lavorativo (es. streamer, content creation, eSports…). Con la maggiore accettazione sociale del gioco, e con il correlato decadimento dello stigma associato di passatempo improduttivo, abbiamo iniziato a studiare quali sono i suoi effetti positivi.
Uno tra questi è senz’altro il modo intuitivo con cui i concetti vengono veicolati, come spiegato sopra nell’esempio dei punti.
Siccome la percentuale di popolazione che è familiare con il mondo dei giochi è sempre più vasta, allora utilizzare delle meccaniche di game design con lo scopo non solo di motivare ma anche con quello, esplicitato e stavolta palese, di insegnare diventa una strada percorribile. Ecco che improvvisamente assistiamo all’inclusione di giochi nei percorsi formativi, alla creazione di giochi progettati ad hoc per la formazione, alla progettazione di percorsi con al centro il gioco (game-based learning).
La gamification in senso ampio e più recentemente utilizzato, e non più quindi nel senso originale, identifica proprio la ludicizzazione dei vari ambiti: non più solo l’utilizzo di meccaniche di gioco estrapolate e riapplicate, ma anche l’utilizzo di giochi veri e proprio in ambiti che non sono più solamente quello dell’intrattenimento. Il nuovo concetto di gamification descrive la comparsa del gioco e delle sue componenti in tutti gli ambiti d’attività dell’essere umano.
Il funzionamento si basa sempre sulla capacità dei giochi e delle meccaniche di gioco di motivare la persona giocante a ripetere l’azione all’interno del gioco; stavolta, però, non solo per scopi strettamente commerciali: “giocare” nuovamente significa anche imparare di più, essere motivati ad apprendere più velocemente, alzare l’asticella del livello di abilità da ottenere.
Esistono oggi sempre più giochi per l’educazione e la formazione. Ma iniziamo ad assistere anche ad una diversificazione tra giochi per l’educazione dei bambini a sostituzione o sostegno della formazione tradizionale scolastica, giochi per la formazione aziendale, giochi per la formazione altamente specialistica come quelli in realtà virtuale per operazioni di precisione.
Iniziamo a vedere giochi per la ricerca, come i giochi in cui i dati vengono trasmessi in centri di ricerca e costituiscono soluzioni ricavate sostanzialmente in crowd-sourcing che altrimenti avrebbero portato via anni agli scienziati (ad esempio FoldIt, in cui le persone giocanti devono trovare le migliori soluzioni per ripiegare proteine complesse in uno spazio tridimensionale).
Esistono oggi sempre più serious games, giochi o attività simili al gioco creati con delle meccaniche proprie dei giochi ma con un intento lontano dall’intrattenimento: ad esempio quello di affrontare temi spinosi, formare a situazioni difficilmente simulabili altrimenti, o con altri scopi ugualmente “seri” anche se ciò non comporta necessariamente che non ci si debba divertire giocandoli, ma solo che lo scopo non è quello legato al piacere di giocare.
Iniziamo ad assistere a giochi per la riabilitazione post-traumatica, definiti exer-games, in cui il paziente esercita abilità residue, potenziandole e recuperando funzionalità. Questi giochi spesso fanno ottimo uso delle ultime tecnologie, come la realtà virtuale e il tracciamento e ricostruzione tridimensionale del movimento corporeo, che può poi restituire analisi dell’evoluzione del percorso terapeutico. Questo ambito di sviluppo è senz’altro estremamente fertile.
Oltre a giochi tout court, iniziamo ad integrare il game design anche in applicazioni gestionali, con l’intento di ottenere un funzionamento più intuitivo, motivante, cognitivamente ergonomico. In fondo, quello che abbiamo imparato dalla prima accezione di gamification è che mantenere la persona coinvolta è solo una delle potenzialità delle meccaniche di gioco.
D’altra parte, se il gioco fosse improduttivo, sarebbe stato eliminato dall’evoluzione, ma sappiamo che molte specie differenti e con linee evolutive distanti giocano: ciò suggerisce senza dubbio che qualche utilità del gioco esista…stiamo iniziando solo ora a scoprire qual è.
Alan D.A. Mattiassi
Per approfondimenti:
Solve Puzzles for Science | Foldit
Game Psychology: giocare per capire chi siamo | Alan Mattiassi | TEDxUdine – YouTube
Interessantissimo. Intrigante. Difficile.