Michele (Michael) Sozzi è un coetaneo, compagno di corso e collega gastroenterologo che ha anche la passione per la scrittura.
Leggendo il suo ultimo romanzo, “La complicanza”, non solo ho riconosciuto luoghi ed atmosfere familiari, legate all’Ospedale dove ho cominciato a lavorare (ormai molti anni fa), ma ho anche apprezzato la particolare attenzione di Michael ad alcuni aspetti della vita non sempre considerati con sufficiente attenzione. L’influenza della casualità sul destino delle persone e la possibilità o meno di prevedere o attutire gli effetti delle coincidenze, per esempio.
Non è raro e probabilmente neppure evitabile che un incontro sfortunati cambi per sempre (in peggio) la vita di una persona o che il destino risparmi dei mediocri che per costituzione o scelta non prendono decisioni. Nel primo caso, poi, è difficile che l’evento sia fruttuoso, utile all’evoluzione e alla vita di chi ne è coinvolto o travolto.
Nel romanzo è narrata la storia di un perdente, che cade dall’alto e sembra destinato a non risollevarsi.
Ho dunque pensato di intervistare Michael, ed ecco quello che mi ha raccontato.
Da dove nasce questo bellissimo connubio tra Medicina e Letteratura?
La lettura e la scrittura mi hanno accompagnato fin dall’adolescenza, ma allo stesso tempo è sempre stata forte in me l’attrazione per le materie scientifiche. Fin da piccolo accoglievo con entusiasmo gli insegnamenti di fisica e di matematica di mio padre, che era ingegnere. Finito il liceo, quando mi sono trovato a dover scegliere la facoltà alla quale iscrivermi, sono rimasto a lungo indeciso tra Lettere e Medicina, e avevo anche pensato alla scelta di compromesso di studiare Psicologia, disciplina al confine tra l’ambito umanistico e quello scientifico.
Cosa ti ha spinto a scegliere Medicina?
Ho deciso per Medicina perché l’idea di affidare la mia vita a un mondo di parole mi dava la vertigine. Avevo bisogno di un terreno solido su cui agire e quello della pratica medica mi sembrava il più congeniale, anche perché ero animato dal bisogno di rendermi concretamente utile. Dedicarmi agli altri attraverso la medicina avrebbe dato una forte motivazione alla mia vita, e mi avrebbe anche permesso di soddisfare i miei interessi scientifici. Per di più avrei avuto un punto di vista privilegiato per osservare la realtà umana e per rappresentarla nei miei scritti. E così è stato, anche se poi mi sono reso conto che quella del medico è una professione totalizzante, che lascia ben poco tempo e ben poche energie per altre attività.
Ma nel frattempo hai continuato a scrivere…
Sì, ho continuato a scrivere, per di più appunti, osservazioni, pensieri, racconti, pagine di diario; ho pubblicato il mio primo romanzo, “La zattera”, molto tardi, all’età di quarantasette anni, e il mio secondo, “La complicanza”, appena ora, che ne ho sessantaquattro. Ambedue hanno un medico come protagonista e, seppure in misura diversa, un’ambientazione ospedaliera.
Quali sono le caratteristiche e le differenze tra i tuoi primi due romanzi?
Ne “La zattera”, che si potrebbe definire un romanzo di formazione, vengono descritte, sullo sfondo dell’ambiente ospedaliero, le incertezze del protagonista nei confronti del proprio futuro, alla luce anche del rapporto conflittuale che ha col padre. Ne “La complicanza” vengono rappresentate le ripercussioni psicologico-esistenziali sul protagonista di un incidente professionale. Queste si intrecciano con il suo vissuto affettivo-familiare e conducono a sviluppi narrativi di tipo investigativo, che rendono il libro quasi un giallo. Non amo il cosiddetto “romanzo di genere” e non ho neanche il talento per scrivere dei veri e propri gialli. Sono però attratto dalle piccole o grandi disavventure della vita, dalle fratture, dalle crisi, dagli eventi che scuotono e stravolgono il procedere ordinato dei giorni, facendo esplodere conflitti, scoperchiando i magmatici mondi sotterranei che sono in noi e che, per pudore o ipocrisia, tendiamo a nascondere. Ne “La zattera” ho affrontato il conflitto tra istinto e ragione, tra immaginazione e realtà, tra realizzazione personale e convenienze sociali, tra arte e vita, un tema caro agli autori del primo Novecento. Con “La complicanza” ho voluto rappresentare il confine labile che esiste tra il bene e il male. Persone eccellenti possono macchiarsi di gravi colpe, vere o presunte, e avere la loro reputazione irrimediabilmente infangata, come, viceversa, persone meschine e mediocri possono, per meriti anch’essi veri o presunti, ottenere dagli altri rispetto e ammirazione. Ed è questo gioco delle parti, questo inestricabile groviglio di meriti e colpe, questa ambivalenza dell’animo umano che mi ha affascinato. Il protagonista, brillante medico e professore, stimato dai colleghi e dai pazienti e amato dagli studenti, si ritrova da un momento all’altro, in seguito a un incidente professionale dagli esiti drammatici, oggetto di disprezzo da parte di tutti, al punto che lui stesso finisce di non sapere più chi sia, se quel brav’uomo, serio, diligente e onesto, che ha sempre creduto di essere, oppure un delinquente. Sprofonda allora in uno stato di grave depressione, assalito dai sensi di colpa e da una feroce e autolesionistica volontà di espiazione.
Nel romanzo ci sono dunque riferimenti a situazioni, relative all’attività medica quotidiana, spesso citate (e talora utilizzate a sproposito) dai media.
In questo libro ho cercato di mostrare l’altra faccia di quella che oggi, un po’ troppo sbrigativamente, viene definita malasanità. È la faccia di chi, pur operando con dedizione, competenza e onestà in contesti spesso difficili, come quello della sanità pubblica degli ultimi anni, si trova a sbagliare per fatalità oppure, come accade al protagonista del mio romanzo, per il concorrere di circostanze non propriamente casuali, che devono essere chiarite. Il contesto in cui si muovono i personaggi, più che essere quello della malasanità, è quello di una sanità spregiudicata, intessuta di intrighi, di carrierismo, di piaggeria, di sopraffazione. L’ambiente è ospedaliero, ma le dinamiche umane che si sviluppano al suo interno sono sovrapponibili a quelle che si possono trovare in qualsiasi ambiente di lavoro.
È difficile conciliare queste due attività e passioni (essere medico e scrittore, appassionato di scienza e letteratura)?
Non si tratta di due opposti inconciliabili, anche se spesso in gioventù sono stato assalito da laceranti dubbi su quale fosse la mia vera inclinazione, ma di due punti di vista complementari per osservare la realtà. La letteratura mi aiuta a relativizzare certi paradigmi clinico-scientifici e a ridimensionare il mio ruolo professionale (penso a quanti grandi scrittori, da Moliere a Proust, hanno messo in ridicolo gli atteggiamenti vanagloriosi di certi luminari della medicina) e la scienza a domare certi voli pindarici della fantasia, costringendo la mia penna a intingersi il più possibile nella realtà.
Qual è il filo conduttore dei tuoi libri?
Un elemento essenziale nei miei libri, anche ne “La complicanza”, che apparentemente parla d’altro, è l’amore. E per amore non intendo soltanto quello tra un uomo e una donna o quello tra genitori e figli, ma l’amore nella sua accezione più vasta: amore per il proprio lavoro, amore per il sapere, amore per la verità, e così via. Vorrei citare in proposito il celeberrimo verso di Virgilio che il dottor Drioli, protagonista de “La complicanza” ricorda quando sente rinascere in sé una vecchia passione: “Adgnosco veteris vestigia flammae”. Nel caso di Virgilio si trattava della fiamma d’amore, che s’accende in Didone alla vista di Enea, per Drioli della fiamma della conoscenza.
Hai già in cantiere il terzo romanzo?
Sì, ma ancora non so quale sarà la sua forma definitiva. Si tratta di un romanzo biografico che ha come protagonista mia madre, morta quindici anni fa. Parla della Seconda Guerra Mondiale, del dopoguerra in Germania e degli anni del boom economico in Italia. È un tributo a una donna che ha avuto una vita molto travagliata ed è anche il memoir di un baby-boomer.
Grazie Silvia: hai accesso la curiosità.
Grazie per questo contributo a favore della cultura umanistica e contro l’ignoranza dilagante che avvelena questo tempo. È necessario e sempre più urgente recuperare tutto quanto può contribuire ad alimentare sempre più la nostra capacità di essere e diventare umani: la letteratura, la musica, l’arte in tutte le sue modalità espressive.
Respiro dell’anima, promessa di futuro per ogni uomo.
Grazie, Silvia, grazie Michael: anche se non ci conosciamo personalmente, siamo più che intimi nella comune e inarrestabile ricerca della verità.