Ciascuno può avvicinarsi alla morte a occhi aperti
se intorno c’è verità e amore.
Ciascuno può fare della propria morte
una lezione di vita per gli altri.
(Marie De Hennezel)
Per provare a ragionare di cure palliative, potremmo partire dal porci una domanda: cosa resta da fare quando non c’è più rimedio o terapia, quando il male, il dolore, la sofferenza non danno tregua mortificando la dignità dell’uomo? Cosa altro si può escogitare quando ci si trova a dover constatare con sconforto e delusione che la partita è persa, che non c’è più nulla da fare? Arrivati a quel punto in cui il grido dell’uomo si eleva forte a cercare di trovare una giustificazione, un motivo, una ragione; quel punto in cui l’umano, e tutto ciò che vi è connesso, si trova esposto in tutta la sua delicata fragilità a confrontarsi col non senso, a scoprire un orizzonte fatto solo di dolore e di morte?
Come dice un aforisma caro ai palliativisti, nel momento in cui sembra che non ci sia più nulla da fare è allora che c’è tanto da fare: è il momento in cui è necessario farsi carico di tutta quella sofferenza e provare a trasfigurarla, il momento favorevole per provare a trasformare la disperazione in una nuova speranza, in cui è necessario sostenere l’uomo nella dura lotta per affrontare l’orrore della malattia inguaribile con le armi della prossimità attenta, reale e compassionevole, di quella vicinanza umana che genera bellezza e alimenta la speranza. E’ il momento in cui bisogna avere il coraggio e la determinazione per decidere che è giunta l’ora in cui la sterile terapia (quando configura l’accanimento) ceda il passo alla fecondità rigenerante della cura.
Secondo una definizione dell’OMS del 2002, le cure palliative rappresentano un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione
e il sollievo dalla sofferenza per mezzo dell’identificazione precoce, dell’approfondita valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali.
In tal senso, la legge italiana n. 38/2010 intende per cure palliative l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici.
Ma per comprendere ancora meglio e in profondità il significato delle cure palliative, la definizione migliore resta ancora, per lucidità e completezza, quella formulata nel 1994 dal Dott. Vittorio Ventafridda, medico e pioniere delle cure palliative in Italia, che meglio di tutte esprime il valore e il significato di esse quali:
«cure totali offerte al paziente dal momento in cui la malattia non è più responsiva alla terapia. Esse vedono la vita e la morte come un processo naturale, non vogliono affrettarla né posporla, provvedono al sollievo del dolore e degli altri sintomi, integrano gli aspetti psicologici e sociali nella cura del paziente, offrono un sistema di aiuto continuo al malato fino all’ultimo istante di vita e un supporto alla famiglia per affrontare la malattia ed il lutto”.
Il nucleo fondante di questa definizione consiste nella consapevolezza che l’obiettivo principale delle cure palliative sia quello di guardare alla qualità della vita residua e non alla sua soppressione. Partendo dalla semplice constatazione che eliminando la sofferenza fisica, garantendo un’assistenza adeguata e riempiendo il vuoto di comunicazione che si crea intorno a questi malati, la richiesta di eutanasia si attenui o scompaia del tutto, il Dott. Ventafridda, sulla base della sua esperienza di anni di medico palliativista, ci ha lasciato la grande eredità del tema delle cure palliative intese quali cure globali che guardano la persona malata in tutte le dimensioni della sua umanità con l’unico obiettivo di intercettarne le esigenze più cogenti e farvi
fronte attraverso la prossimità competente, paziente e compassionevole. Solo con questo tipo di approccio, che possiamo definire “olistico” poiché garantisce una attenzione a “tutta” la persona, si può restare in equilibrio tra i due opposti: l’accanimento terapeutico da un lato, l’eutanasia dall’altro.
In sostanza, stiamo parlando di trovare il giusto equilibrio per realizzare quella efficace e virtuosa “proporzionalità delle cure” che sola può garantire il paziente nel soddisfacimento delle sue esigenze prioritarie in tutte le fasi del suo percorso.
Un percorso che, durante il suo svolgersi, si apre a tutte le possibilità assistenziali, sia in termini di terapia che in termini di cura.
La definizione di Ventafridda, infatti, colloca perfettamente le cure palliative all’interno dell’ambito della proporzionalità delle cure, in una situazione di pieno e reale equilibrio fra accanimento terapeutico da un lato ed eutanasia dall’altro; l’equidistanza delle cure palliative rispetto a queste due dimensioni, non accelerando né ritardando il tempo dell’exitus, connota le stesse di una caratteristica peculiare: quella del rispetto dei giusti tempi dell’uomo e del suo percorso vitale, nel rispetto dell’uomo, di ogni uomo e di ogni donna, della sua originale unicità e di tutte le componenti della sua umanità. In questo dinamismo virtuoso è in gioco la realtà fondamentale della relazione interumana. L’uomo, a prescindere dal tipo di appartenenza spazio-temporale (culturale, sociale, etnica, religiosa, ecc.), può vivere esprimendo al meglio le sue potenzialità e realizzando in pienezza la sua stessa identità soltanto all’interno della dimensione relazionale. In tal senso, la vita vera può essere contemplata soltanto all’interno della relazione. La cura, intesa come la messa in opera di tutte quelle azioni volte alla custodia premurosa e permanente di qualcuno o di qualcosa, lungi da ogni ipotesi astratta, consiste nel “prendersi effettivamente e concretamente cura di”. Pertanto, la cura attiene strettamente alla relazione: il “prendersi cura di” implica un rapporto stretto tra colui che dispensa la cura e colui che ne è il destinatario; questa relazione di cura poi non è altro che relazione di dono costruita sui pilastri sempre solidi del bene e della libertà. “Tutti dipendiamo dalle relazioni di cura; è la relazione che dà vita: in tal senso, dunque, la cura è al cuore
dell’esistenza umana” 1. Tutto ciò ha a che fare con i concetti di etica, di cura, di etica della cura, di relazione di cura, di limite e di fragilità dell’uomo.
Parlando di “cure palliative”, a partire già dall’accostamento delle due parole, è facile comprendere come sia necessario fermarsi un momento a cercare di fare discernimento sul senso, il significato e il valore che il termine “cura” ha nel nostro vocabolario, nel nostro vissuto e nella vita dell’uomo in generale. E quindi, sarà necessario fare un ulteriore sforzo per capire quali possano essere le implicazioni concrete dell’adattamento del termine cura al termine palliativo. In sostanza, si vuole qui rimarcare l’assunto che ogni nostro atteggiamento e ogni nostro comportamento dovrebbe essere sempre il frutto di un discernimento etico che sappia, di volta in volta orientarci nelle scelte che faremo. Diventa cioè necessario scoprire il valore di una riflessione, personale e comunitaria, sull’etica della cura perché, in fondo, il filo rosso che lega tutte le problematiche legate alla dimensione della medicina palliativa ha la consistenza della realtà della cura.
Nel campo delle cure palliative è necessario porre sempre l’accento sul senso della assistenza che ivi è offerta: per questo è importante innanzitutto conoscere esattamente il significato dei termini terapia e cura e la differenza fra loro. A tal fine, è opportuno possedere il giusto grado di consapevolezza circa il fatto che, nel momento in cui si considerano esaurite le possibilità terapeutiche, resta comunque uno spazio e un tempo di operatività nel quale c’è ancora tanto da fare, perché è lo spazio in cui si apre il campo della cura vera e propria, quella che ha l’obiettivo di custodire e proteggere l’umanità e la dignità dell’uomo morente al di là della terapia, nell’ultima fase della sua esistenza.
Nella terminologia anglosassone, il curare può essere espresso in due modi: to cure e to care. Il primo termine, to cure, rappresenta l’insieme di medicamenti e rimedi per il trattamento di una malattia; ciò corrisponde sì al processo di cura, ma in quella
1 Sara Brotto, L’etica della cura, Orthotes Editrice, Nocera inferiore (SA), 2013, pag. 7.
parte del processo che noi definiamo terapia. Il secondo termine, to care, definisce, invece, l’interessamento sollecito e costante per qualcuno; ciò corrisponde al processo di cura in toto, esso definisce la cura e il suo senso (dunque, la terapia, a questo punto, rappresenta soltanto una parte dell’intero processo di cura, che contempla altre parti nel suo svolgimento). La cura, il to care, è sempre possibile: c’è sempre tempo e spazio per il to care (anche oltre la morte, nei riguardi dei parenti); la terapia, il to cure, è possibile solo a volte.
Inoltre, l’associazione del termine “cura” con il termine “palliativa” apre lo sguardo e la comprensione verso quell’orizzonte della cura vera e propria in cui, esaurita ogni possibilità terapeutica, si apre un nuovo scenario dove l’uomo morente è al centro della storia con tutte le esigenze e le domande di cui è portatore e in cui è fondamentale garantire la bontà e la costanza della qualità del rapporto fra operatori e paziente/famiglia. Una volta iniziato il percorso, sarà responsabilità dell’operatore rassicurare sempre il paziente e il caregiver (co-protagonista del processo di cura) circa la certezza della propria presenza efficace attraverso la messa in campo di tutto quanto è nella propria disponibilità per garantire la possibilità di poter vivere il proprio morire nel pieno e permanente rispetto della dignità dell’uomo e delle sue esigenze.
E’ un percorso che potrebbe non finire mai perché, nell’ambizioso programma delle cure palliative è contemplato anche l’aspetto della cura del “dopo”, del prendersi cura dei sopravvissuti, nel ricordo fecondo e permanente del caro scomparso, con l’unico scopo di favorire una soddisfacente qualità di vita e proteggere la dignità umana di chi resta anche dopo la scomparsa del paziente/congiunto/amico, attraverso percorsi di umanizzazione, di riconciliazione e di liberazione che permettano di elaborare efficacemente il lutto e di continuare a vivere con uno sguardo rinnovato attraverso la prospettiva di una nuova speranza in cui, sconfitta la solitudine, si può sempre contare sulla presenza vicina e fedele di chi ha già dimostrato di essere credibile e affidabile nella sua compassionevole prossimità.
2 Marie De Hennezel, Nadège Amar, Morire a occhi aperti, Lindau, Torino, 2006.
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